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MONICA IURLARO: “L’IMPEGNO DI BOEHRINGER INGELHEIM VERSO GLI ‘UNMET NEEDS’ DEI PAZIENTI”

11 febbraio 2022

Intervista con Monica Iurlaro, HP Country Medical Direcotr di Boehringer Ingelheim Italia, sull’impegno dell’azienda alla ricerca di nuove soluzioni per andare incontro alle esigenze dei pazienti, sia a livello di terapia che di diagnosi precoce

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Monica Iurlaro: “L’impegno di Boehringer Ingelheim verso gli ‘unmet needs’ dei pazienti”: Project

di Alice Caccamo


L’11 febbraio si ricorda la giornata mondiale del malato, troppo spesso considerato come una realtà astratta, spersonalizzata, lontana. Eppure, la malattia entra nelle case di tutti, prima o poi. Chi è il ‘malato’? Cosa significa, oggi, in Italia, essere malati?

Il tema di chi è il malato viene dato spesso per scontato ma, in realtà, rappresenta il punto di partenza qualora si lavori per migliorare la vita dei pazienti. Il malato è il nostro vicino di casa, siamo noi, sono i nostri parenti, i nostri amici o colleghi: non è una entità anomala, lontana da noi. I malati sono persone pienamente inserite nella società, che vivono una sfida quotidiana: quella di rimanere parte integrante della società gestendo la propria fragilità. Perché i malati non sono la loro malattia, è un essere umano che fa parte di una comunità. Questo è un concetto importante se non si vuole correre il rischio di creare una società di serie a e una di serie b.


Stiamo vivendo gli strascichi di una pandemia che ha rivoluzionato il nostro modo di vivere e che ha ridefinito il concetto di malato, di malattia e di priorità sanitarie. Da medico, pense che siano cambiati anche i bisogni dei malati? In generale, quali sono le necessità più urgenti di una persona con una patologia oltre, naturalmente, a una diagnosi precoce e a una cura efficace?

Credo che questo momento storico, caratterizzato dalla pandemia, ci abbia messo davanti a sfide enormi e a grandi opportunità di crescere come società e come sistema sanitario. La diagnosi e la terapia sono sicuramente i due bisogni fondamentali per un paziente ma ci sono molti altri elementi che ne influenzano il percorso terapeutico e il benessere generale. Da persona con esperienza clinica, la cosa che mi è rimasta più impressa negli ultimi due anni è quanto il paziente sia stato amputato di un elemento importante per il suo recupero: la vicinanza dei propri cari. La pandemia ci ha fatto capire come il dramma della malattia si manifesti nella sua forma peggiore quando la si vive in solitudine. Solitudine significa mancanza di una persona cara, significa ‘sentirsi’ soli perché non capiti, significa anche sentirsi respinti da una società che ha paura di te, di avvicinarsi a te perché ti vede come un rischio. A questo proposito, le associazioni di pazienti hanno fatto e continuano a fare la differenza, dando voce a chi non ce l’ha per vari motivi: fisici, emotivi, culturali. La narrazione della malattia ha una componente culturale importante: ci sono malattie che non vengono nominate, come il cancro, il ‘brutto male’. Altre malattie non vengono nominate perché sono molto rare e, non essendo conosciute, non vengono capite: i pazienti fanno fatica a spiegare la loro condizione e si sentono ancora più soli. Anche per queste malattie, è notevole il contributo delle associazioni di pazienti e dei medici nel portare i bisogni dei pazienti all’attenzione della società e delle istituzioni.


Considerare il paziente come persona, come parte di una società, è il punto di partenza. Cosa si può fare per rendere il paziente ‘visibile’?

La visibilità del paziente con le sue necessità, non solo della malattia, è importante. Credo che, all’interno del sistema salute, tutti noi abbiamo delle responsabilità e dei ruoli complementari. Il contributo che possiamo dare è quello di fare squadra, puntando su un partenariato trasparente e di valore, creando ponti tra imprese private, società scientifiche, medici, associazioni di pazienti e istituzioni, per affrontare le necessità dei pazienti secondo prospettive diverse che consentono di trovare soluzioni realistiche e concrete.


A proposito di ‘cura’: la cura non è solo sinonimo di terapia, ma presa in carico, assistenza e relazione con la persona malata. Come possono, questi elementi, influenzare il decorso della patologia?

La rete sociale non va mai interrotta attorno al paziente. Vorrei fare una distinzione, che sembra ovvia ma non lo è: se dovessimo chiedere a qualcuno la differenza tra ‘curare’ e ‘prendersi cura’, la risposta non sarebbe scontata perchè difficilmente si immagina il prendersi cura come un concetto più ampio del curare. Noi usiamo spesso il termine inglese’care-giver’, che veicola l’idea di una forza umana enorme: colui che dà cura, che non solo somministra i farmaci ma si prende in carico un pezzo della patologia e un pezzo della vita del paziente e lo aiuta a rimanere, nel migliore dei casi, integrato nella società. Perché la patologia porta spesso con sé un senso di inutilità percepito dai pazienti. Il valore del prendersi cura sta proprio nell’aiutare i pazienti a sentirsi utili all’interno della propria famiglia, tra gli amici, sul posto di lavoro e in tutti gli ambiti che gli sono propri.


La ricerca di una ‘cura’ è la missione di un’azienda farmaceutica. Tuttavia, purtroppo, il percorso non è semplice e sono ancora moltissime le malattie per le quali non esiste una cura.
Allo stesso tempo, grazie alla ricerca, ci sono patologie, una volta mortali, che oggi sono state ‘cronicizzate’. Oppure patologie che possono essere gestite o rallentate. Quali sonole aree più promettenti nelle quali si sta concentrando la ricerca (covid a parte)? Quali le aree in cui invece sono più forti gli ‘unmet needs’ e nelle quali sarebbe più urgente investire per trovare nuove soluzioni?

L’impatto della ricerca su una patologia non è solo relativo alle soluzioni terapeutiche che si è in grado di sviluppare. Tramite lo studio di un farmaco, in realtà, si aiuta anche a fare diagnosi in modo più preciso e più esteso. Il concetto di ‘unmet medical need’ è ampio, non correlato solo alla disponibilità di un farmaco ma anche al fatto che non si riesca a fare in modo sistematico ed esteso diagnosi di quella patologia. Questi due elementi vanno tenuti ben presenti perché quando l’accesso alla diagnosi è difficoltoso o disomogeneo, significa che non viene data adeguata opportunità di curare quella patologia. Per quanto riguarda la ricerca, l’impegno di Boehringer Ingelheim è rimasto costante negli anni, pur mutando pelle e ampliando le aree di intervento. In oncologia, ad esempio, stiamo lavorando per offrire opportunità di terapia per tumori che, fortunatamente, non sono molto diffusi nella popolazione ma sono molto aggressivi, come nell’ambio dei sarcomi o alcune specifiche neoplasie a livello gastrointestinale. Qui entriamo nel vero unmet medical need, perché si darebbe una opportunità in più a pazienti con patologie meno frequenti al momento senza una terapia disponibile. Lo stesso vale per le malattie rare, ambito nel quale stiamo studiando malattie infiammatorie autoimmuni come le forme più aggressive di psoriasi. Stiamo inoltre studiando il sistema nervoso centrale. In questo caso non si può parlare di unmet medical need, ma di ambizione a voler contribuire a un miglioramento della vita del paziente, ad esempio lavorando su un sintomo, perché le malattie del sistema nervoso centrale presentano un ampio corollario di sintomi. Anche il solo mitigarne uno rappresenta un miglioramento notevole nella qualità della vita del paziente, e non solo, perché l’impatto della malattia mentale ricade sull’intero nucleo familiare.

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